I Numerini della Manovra

È un vero peccato che né il Premier Conte, né i due Vicepremier semi-plenipotenziari non abbiano, per formazione o mancanza della stessa, alcuna dimestichezza con i “numerini” della manovra di politica economica. E questo non tanto perché sui “numerini” si dovrà trattare con l’arcigna Commissione Europea, che in questi anni ha fatto per la verità ampi sconti sulle promesse fatte dai vari governi. E neppure perché i “numerini” sono osservati attentamente dai cosiddetti mercati, che devono decidere se rinnovare i titoli di Stato che possiedono o chiederne il rimborso (che lo Stato non avrebbe i soldi per garantire).

Molti Italiani sembrano apprezzare le semplici e nostalgiche ricette giallo-verdi per problemi complicati: dal lavoro (no alla precarietà e domeniche a casa), alle migrazioni (no agli immigrati, specialmente se neri), alla salute (i vaccini e le punture fanno male), al commercio internazionale (no alla concorrenza cinese), ed alla moneta (se ce la stampiamo da noi possiamo diventare tutti ricchi!). La “nota di aggiornamento” al Documento di Economia e Finanza, in coerenza con le misure finora adottate nei diversi ambiti, ruota intorno all’idea che tornando a finanziare con nuovi debiti le spese correnti, come fatto dalla fine degli anni settanta, si possa crescere. Purtroppo, in questo caso dai “numerini” dipende la capacità dello Stato di ripagare i propri debiti.

Per essere “solvibile” uno Stato non può adottare una politica di bilancio che faccia aumentare a dismisura i propri debiti in rapporto alle risorse complessive (il Pil).

Qui sotto riporto i miei ultimi calcoli relativi alle implicazioni della manovra circa l’andamento del rapporto tra debito pubblico e Pil, in diversi scenari. Comuni sono le ipotesi su tassi di interesse, inflazione e crescita. Immagino negli esempi successivi che il saggio di interesse nominale medio sul debito, grazie alla imminente fine della politica di forti acquisti di debito dell’Eurozona operato dalla BCE, aumenti gradualmente dal 3 al 5 percento nel 2022 rimanendo poi stabile; che l’inflazione rimanga al 1.9 percento, “vicino ma sotto il 2 percento” come da obiettivo della Banca Centrale Europea; che il tasso di crescita rallenti un po’ per stabilizzarsi all’ 1 per cento nel 2020. Nel primo scenario, si veda la Figura 1, il governo adotta una politica fiscale espansiva temporanea: il disavanzo pubblico rimane al 2.4 per tre anni e poi viene gradualmente azzerato (linea verde, con legenda a destra nella figura). Questo permette al rapporto debito-Pil, raffigurato dalle barrette blue (legenda di sinistra) di collocarsi su una traiettoria discendente

che lo porta sotto il 100 per cento in circa vent’anni. La figura mostra un dato importante di questa politica: rinviare l’aggiustamento nel tempo è molto costoso, perché necessita di una politica fiscale di super-austerità in futuro. Per mantenere il debito su una traiettoria sostenibile sarebbero necessari avanzi di bilancio primario (linea rossa), cioè al netto degli interessi, crescenti che dovrebbero arrivare a quasi 6 punti di Pil nel 2025 per poi stabilizzarsi poco sotto i 4 punti. Una politica di tale rigore sarebbe difficilissima per qualsiasi governo ed è estremamente inverosimile che quello giallo-verde sia disposto a vestire i panni dell’austerità (a meno che non sia obbligato a farlo dalle istituzioni internazionali), rimangiandosi reddito di cittadinanza e controriforma delle pensioni.

Più probabile che, una volta ridotto l’avanzo primario a circa un punto e mezzo di Pil, questo venga mantenuto più o meno invariato negli anni a seguire (si veda la Figura 2, linea rossa). Questa politica, dopo un leggero calo nei primi anni, porterebbe il rapporto debito-Pil, barre blu, su una traiettoria esplosiva, in cui i crescenti oneri di interessi farebbero aumentare il deficit  fino al 6 percento (linea verde) del Pil, ed il debito oltre al 150 per cento del Pil in circa 20 anni. In queste condizioni la crisi di fiducia nel nostro debito avverrebbe molto prima.

Qualcuno potrebbe obiettare che questi calcoli ignorano che la politica del governo del cambiamento avrà forti effetti positivi sulla crescita economica e dunque, accrescendo il denominatore del rapporto debito-Pil, ne assicurerà la riduzione.  Possibile, ma alquanto improbabile. L’ultimo grafico nella Figura 3 risponde alla domanda seguente: date le nostre ipotesi su tassi di interesse e d’inflazione e con un avanzo primario al 1.5 per cento, quanta crescita economica sarebbe necessaria per assicurare la stabilità del rapporto debito-Pil (al 130 per cento)? La figura mostra che le misure della manovra dovrebbero far aumentare gradualmente la crescita fino all’ 1.9 percento nel giro di tre anni, e riuscire a mantenerla vicino al 2 per sempre.  Una crescita di lungo periodo a questi tassi è estremamente improbabile in qualsiasi economia avanzata, e ancora di più per un paese che cresce poco come l’Italia.  

È veramente improbabile che un aumento dei trasferimenti ai pensionati, una modesta riduzione di aliquote per le piccole imprese ed un programma di 15 miliardi di investimenti pubblici in tre anni, circa lo 0.3 per cento del Pil all’anno, sortiscano questi mirabili effetti.

I numerini, dunque, mandano un messaggio chiaro al governo. Le sue scelte di oggi realisticamente lasciano aperte tre soluzioni per il futuro: o delle politiche di fortissima austerità, o una imposta patrimoniale, o l’uscita dall’euro con default esplicito o implicito (inflazione che riduce il valore del debito) e controlli sui capitali.